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Il popularismo è una corrente ideologica che ha come fine la costituzione di un modello di società auto-regolato in una perfetta armonia tra le parti che lo compongono mediante la costituzione di una cooperazione sociale supervisionata da uno Stato forte, legittimato e fondato sul Diritto, che ha l’onere di condurre questo processo storico di evoluzione della società fino allo stadio ultimo di essa, ossia quella società dove lo Stato sarà solo garante di un sistema auto-regolato che vive in perfetta simbiosi senza nessuna limitazione alla libertà personale. Dunque l’arrivo alla società evoluta, civile e responsabile.

 
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Dino Gradi: Il fascista disubbidiente

Ultimo Aggiornamento: 08/08/2007 15:59
08/08/2007 15:52
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Dino Grandi


Dino Grandi
Dino Grandi , conte di Mordano, (Mordano, 4 giugno 1895 – Bologna, 21 maggio 1988) è stato un politico italiano. È stato ministro degli Affari Esteri e ambasciatore a Londra.

Nato da una famiglia di proprietari terrieri della bassa romagnola, si iscrisse nel 1913 alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bologna, ebbe una collaborazione giornalistica con il Resto del Carlino, ma si laureò con una tesi in economia politica solo nel 1919, a guerra finita, pur restando sotto le armi; congedato, si trasferì quasi subito ad Imola dove iniziò la sua carriera di avvocato.

Indice
1 Le origini politiche
2 La leadership nel movimento fascista
3 Un fascista diplomatico
4 Uno strano fascista
5 L'ordine del giorno
6 Collegamenti esterni



Le origini politiche

Personaggio di cospicua intelligenza, iniziò il suo percorso politico nelle fila della sinistra, prima di seguire, nel 1914, Benito Mussolini.

In questo periodo, insieme al futuro capo del fascismo, fu acceso «interventista», sostenitore cioè della tesi che l'unico modo per l'Italia per acquistare importanza politica internazionale fosse quello di partecipare attivamente alla prima guerra mondiale. Nella polemica politica si inserì con grande ardore e violenza dialettica; il 17 ottobre 1920 fu ferito in un agguato da cinque colpi di pistola, mentre due giorni dopo il suo studio fu completamente devastato da militanti della sinistra.

Fu in seguito fra i fondatori dei fasci emiliani, dei quali divenne segretario regionale nel 1921. In questo particolare ambito, là dove il successo del fascismo passava necessariamente attraverso le maniere «sanguigne» del locale squadrismo rustico e ruspante, si sviluppò la sua vicinanza alle ali più animose e di fatto più discutibili del movimento. Nella sua lunga carriera di fascista gli squadristi lo accompagnarono sempre, garantendogli una base di supporto importante per molti aspetti, anche se con sempre minore evidenza quando la sua figura venne raffinandosi e ingentilendosi col crescente prestigio delle cariche che avrebbe assunto.

Nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921, Grandi fu eletto deputato, ma un anno dopo, a conclusione di un lungo dibattito parlamentare, la sua elezione insieme a quelle di Bottai e Farinacci, sarebbe stata annullata perché al momento del voto non avevano ancora l'età necessaria. Dopo neppure due settimane dalle votazioni, comunque, aveva diretto un assalto fascista contro il circolo Andrea Costa di Imola, dove il successivo 17 giugno una squadra di 500 fascisti avrebbe occupato il palazzo comunale, issando il tricolore sulla torre dell'orologio. Questi episodi tennero Imola sotto assedio per un lungo periodo.


La leadership nel movimento fascista

Mussolini, che era mosso anche dalla necessità di consolidare la sua leadership nei rapporti con le altre forze politiche, tentò di elaborare per poi proporre un patto di pacificazione fra i gruppi fascisti e quelli di sinistra, ma non ci riuscì vista l'avversa volontà di entrambe le parti. Frattanto si diffuse il sospetto che Grandi, emergente con sempre maggior piglio fra i notabili del partito e contrario con nitida decisione al patto, potesse ambire a sostituire il maestro di Predappio: insieme a Balbo, aveva esperito in segreto (ma non troppo) un tentativo, forse non così ingenuo come allora parve, per convincere Gabriele D'Annunzio a prendere il posto di Mussolini. Il poeta-soldato evitò addirittura di entrare nel merito della proposta, rifiutando il contatto, ma Grandi si era ormai posto, pur relativamente giovane qual era, come un candidato alternativo alla guida del movimento. Per superare l'insidia, Mussolini dovette rischiosamente presentare le dimissioni della sua giunta esecutiva, ammonendo che sarebbe tornato a ruoli più modesti di «portatore d'acqua»; come aveva correttamente preveduto, ed ovviamente sperato, le dimissioni non furono accettate per mancanza di validi potenziali sostituti. Lo spettro politico di Grandi che si aggirava intorno ai votanti, pur ben presente seppur mai nominato, non aveva convinto.

Fu quindi Grandi, l'unico reale antagonista del Duce all'interno del movimento, l'unico ad aver mai posto davvero in discussione - e con qualche chance - il capo, ad accettare il ruolo di gregario e nel congresso del 7 novembre 1921 a Roma manifestò l'avvenuta sua sottomissione con un palese quanto melodrammatico «fraterno abbraccio», concessioni barattate con la cancellazione del patto coi socialisti dall'agenda fascista. Mussolini aveva definitivamente sconfitto, con Grandi, tutte le opposizioni interne, sebbene non senza costo.

Il giovane bolognese aveva, come detto, assunto un ruolo di una certa autorevolezza presso gli squadristi ed in questa occasione si diede merito presso di loro di averne ottenuta l'ammissione in seno al partito, in guisa di truppa civile organizzata in forma militare. Questo «sdoganamento» (come forse lo si chiamerebbe oggidì) gli consentì comunque di mettere le mani su un elettorato contiguo a quello dello stesso Mussolini il quale, nativo di Romagna, avrebbe ovviamente preferito rappresentare più direttamente i suoi conterranei, ma dovette volgersi invece all'elettorato milanese. Grandi restò il riferimento degli squadristi e dei fascisti di quella elettoralmente assai cruciale regione.

Nell'estate dello stesso 1921, Grandi guidò la rivolta dello squadrismo agrario contro la dirigenza dei Fasci; nel luglio del 1922 diresse 2.000 fascisti all'occupazione di Ravenna.


Un fascista diplomatico

Pur avendo dunque stabilito rapporti profondi con lo squadrismo, manovra che però era in assoluto anche un modo astuto di accrescere il peso e le dimensioni della sua corrente politica in poco tempo e con minimo dispendio di energie e di filosofia, Grandi sarebbe poi diventato uno dei «moderati» fra i gerarchi più importanti del regime, in compagnia di Bottai, Balbo e Federzoni, mentre Starace, Farinacci e De Bono, gli altri componenti di questo non ufficiale direttorio del fascismo, di questo «quadrumvirato allargato», avrebbero invece preso direzioni più estremiste, sino al folklore, sebbene questi posizionamenti fossero più di facciata che non di contenuto.

Fu sottosegretario all'Interno ed agli Esteri dal 1924 al 1929, ministro degli Esteri dal 1929 al 1932 quando lasciò il suo incarico a capo del Ministero per andare nel mese di luglio a Londra, ove rimase come ambasciatore fino al 1939; fu infine ministro della Giustizia e dal 1942 presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni. Si deve al guardasigilli Grandi l'ultimazione della codificazione, con l'entrata in vigore nel 1942 del codice civile e di quello di procedura civile e del codice della navigazione, nonché della legge fallimentare, dell'ordinamento giudiziario e di altre norme speciali. Seguì in prima persona le fasi finali della codificazione, avvalendosi di giuristi di altissimo livello, molti dei quali (come Piero Calamandrei e Francesco Messineo) notoriamente antifascisti.

Dal 1929, anno dei Patti Lateranensi, terminata la sua fase di apprendistato governativo da sottosegretario, si occupò di rappresentare l'Italia presso le altre nazioni, e fu forse questa l'attività in cui riuscì ad esprimere le sue doti migliori. La Farnesina era allora un organismo ancora ottocentesco, liberale (nel senso culturale del termine), e Grandi vi entrò per applicarvi, burocraticamente, i nuovi stili ed i nuovi concetti della rivoluzione fascista. Presto sarebbe stato dinanzi alla necessità di stabilire buoni rapporti con le potenze straniere, in vista di una crisi economica che avrebbe avvinto l'intero globo e certo anche l'Italia.

L'impostazione che Grandi diede alle relazioni internazionali fu, forse senza destare sorpresa né rammarico, assai differente da quella prevista da Mussolini: se il Duce, nonostante grandi capacità di mediazione, vi si affacciava con aggressività, il suo ministro si incamminò su una strada di saggia e delicata prudenza. Mentre il capo del Governo pensava a come poter trarre eventualmente vantaggi competitivi dalla crisi, Grandi si fece convinto (e convinse forse anche altri) che la crisi avrebbe potuto creare positivi vincoli di collaborazione fra i grandi stati europei e che il farsene promotore avrebbe accresciuto il prestigio italiano sino all'ammissione dell'Italia nel novero delle potenze, obiettivo comunque perseguito dal fascismo di tutte le correnti e sempre più facile da raggiungere man mano che la crisi riduceva i disvalori economici fra gli stati.

I suoi tre anni da ministro furono di estrema intensità politica e diplomatica. Riuscì in così breve tempo a dare all'apparato un'organizzazione omogenea con quella degli altri apparati dello stato, compiendovi la richiesta «fascistizzazione». Operò in sostegno degli italiani all'estero, rassicurando gli emigrati (che, se pur indirettamente, potevano rafforzare il consenso presso i parenti rimasti in Patria) e li dotò di una rete di strutture consolari che tuttora è quella da lui ideata. E nei rapporti con le altre nazioni, "infilò" l'Italia dovunque gli riuscisse possibile, in tutti gli organismi anche inutili dai quali già sapesse che non sarebbe stata rifiutata, inserendosi in tutte le discussioni più importanti sui problemi internazionali. L'Italia stava conoscendo una popolarità estera che forse non ebbe più a ripetersi.

Fu a questo punto che l'efficace attivismo del ministro richiamò l'attenzione di Mussolini, il quale ancora una volta temette che Grandi avrebbe potuto guadagnare più prestigio di lui e «scippargli» il ruolo di interlocutore nazionale esterno. L'occasione fu data dalle concessioni dialettiche che il ministro cominciava ad avallare informalmente in tema di disarmo; sebbene al tempo le fabbriche d'armi e dunque la capacità di armamento costituissero uno dei primati italiani, e sebbene tutta la non esigua tecnologia industriale civile fosse accompagnata da una non occulta analoga produzione militare, tali che l'Italia poteva considerare eventuali concessioni come nei fatti niente affatto significative, Mussolini non amava parlare della sicurezza patria con altri. Accusando Grandi di essere andato a letto con l'Inghilterra e con la Francia, lo rimosse dall'incarico, nominandolo ambasciatore a Londra; non un «promoveatur», ma certo in tutto un «amoveatur».

La politica estera italiana, ripresa in mano dal Duce che assunse personalmente anche quel dicastero (la procedura di revoca fu eseguita tutta a bordo di un vile bigliettino che diceva fra l'altro: «Domattina alle otto verrò a prendere le consegne») vide la conclusione del revisionismo pacifico ed il definitivo distacco dalle tradizioni della diplomazia. A Londra Grandi avrebbe potuto meditare con calma sul contrasto fra la sua linea metodica e prudente, condivisa con Bottai, e la linea drastica del capo del regime.

E Londra fu la sua grande occasione, non sprecata. Qui si fece apprezzare anche dai politici inglesi, dei quali ne conobbe molti e con molti fu in rapporti di viva cordialità. Seguì da vicino le fasi di avvicinamento di Churchill all'Italia e caldeggiò taluni atteggiamenti pubblici del premier, di ottima simpatia verso l'Italia, poi rinnegati dallo stesso.


Uno strano fascista

Non stressato dal dover nascondere il suo opportunismo, sul piano della vita di partito Grandi visse sempre di rendita delle posizioni raggiunte all'epoca dello scontro con Mussolini, ma pian piano ebbe a crearsi numerosi detrattori fra quei gerarchi dei quali non condivideva la rozzezza o la stupidità.

L'elevatissimo livello delle sue relazioni internazionali, con cui il solo Ciano poteva rivaleggiare (ma non sempre per meriti), lo condusse ad assumere un distacco quasi anglosassone e certamente snob verso la popolaresca classe politica italiana. Il suo non malevolo disprezzo, ad esempio, verso Achille Starace, il segretario nazionale autore delle campagne di immagine più goffe e più irritanti (come quella sulla italianizzazione dei cognomi), del quale diceva che non fosse in fondo cattivo ma che era «un pover'uomo», lo mise una volta di più in contrasto col Duce che, a sua volta, per difenderlo e per difendere la sua scelta, epigraficamente definì il poveretto come «un cretino, sì, ma obbediente».

Il contrasto con Starace, di modi, di concetti e di stili, oltre che la differenza di capacità e di potenzialità di pensiero, simbolizza vividamente la distanza di Grandi dal mondo in orbace. Egli stesso ebbe a dire di sé, parlando con Ciano nel 1942: «Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista durante vent'anni». E del suo rapporto col Duce, e della sua supposta insubordinazione, scrisse note nelle quali, con artifici della retorica, s'inerpicò a spiegare che la fedeltà non è sinonimo di obbedienza, a giustificare con una presunta fedeltà le sue mille stravaganze ed incoerenze politiche.

Amante delle vie tortuose (così ne disse Bottai), si guadagnò la fiducia di Casa Savoia e in particolare di Vittorio Emanuele III. Fu fatto conte di Mordano e in seguito ebbe il Collare dell'Annunziata, con la conseguenza di diventare «cugino del Re». Degustatore capace della vita comoda, fu scosso dal repentino ordine di Mussolini che nel 1941 lo spedì di corsa a combattere sul fronte greco.


L'ordine del giorno

Grandi fu l'autore principale del noto ordine del giorno che il 25 luglio 1943 provocò la caduta di Mussolini. Fu decisivo infatti, il suo voto e fu essenziale la sua opera di persuasione nei confronti degli altri membri del Gran Consiglio del Fascismo.

Da tempo, insieme a Bottai e Ciano, Grandi riteneva che una soluzione alla crisi avrebbe potuto sortire soltanto dalla sostituzione (o intanto dalla deposizione) del Duce, che nella parossistica identificazione personale con il Regime (Fascismo = Mussolini, e viceversa) aveva condotto, a loro vedere, l'idea fascista originaria ad essere condizionata e compromessa dagli errori dell'uomo. In sostanza, gli sbagli di Mussolini avevano posto in pregiudizio la sopravvivenza stessa del fascismo, e non vedendosi spiragli, entrambi erano comunque destinati a perire. Conveniva piuttosto sacrificare il capo, e con esso tutto il regime, pur di consentirsi potenziali aperture per una successiva eventuale riformulazione, che non attendere, in una insopportabile situazione di disfacimento. Le posizioni di Grandi, di Ciano e di Bottai, comunque, erano lievemente differenti.

Aveva scritto Grandi nei suoi diari, un paio di mesi prima del 25 luglio: «Siamo noi che, indipendentemente dal nemico, dobbiamo dimostrarci capaci di riconquistare le nostre perdute libertà. ... Mussolini, la dittatura, il fascismo, debbono sacrificarsi, ... debbono "suicidarsi" dimostrando con questo loro sacrificio il loro amore per la Nazione...».

Se Grandi considerava ormai finita l'esperienza fascista e riteneva quasi un «dovere fascista» l'harakiri politico, Bottai attribuiva al Duce la responsabilità unica delle deviazioni e confidava che il fascismo (o forse l'altamente ideale concezione che ne nutriva) potesse presto risplendere di luce nuova appena caduto il suo discusso capo; Ciano, invece, pragmaticamente vedeva davanti a sé una soluzione «all'italiana»: Mussolini, sentenziò al suo interlocutore, «se ne andrà e noi in qualche modo ci aggiusteremo». E previde anche le prossime attribuzioni di alcuni ministeri. E, per rendere un servigio più completo, già che c'era gli previde anche i rimpasti («poi ci si scambierà i posti»).

Di Grandi, in verità, si è anche ipotizzato che l'eterno antagonismo col Duce, foriero di un lento strisciante rancore che aveva accompagnato le loro carriere sin dal 1914, fosse giunto a suscitargli un «cupio dissolvi» che nella raggiunta freddezza di modi avesse comunque preservato tutto intatto il furore della vendetta e tutta aperta l'ambizione alla vittoria finale sull'avversario. Ma lo spessore dell'uomo e la sua esperienza internazionale rendono alquanto credibile che le note reperite sui suoi diari fossero espressione di una sincera convinzione politica e morale, la cui distanza dalle visioni ed esperienze mussoliniane ben potevano essere cagione del loro antagonismo.

L'azione fu certamente concordata con Vittorio Emanuele III, come prova la presenza di un piano preordinato per l'immediata cattura e la diretta traduzione di Mussolini al Gran Sasso, manovre delicate che non potevano certo essere state organizzate in quell'oretta scarsa di tempo fra la fine della riunione a Piazza Venezia ed il colloquio di Villa Ada. E del resto la data dei diari di Grandi (maggio) delinea un tempo di maturazione della decisione non irrilevante che, date le sue relazioni, avrebbe potuto consentire una lunga elaborazione, certo non sgradita alla poco scattante tradizione sabauda. Pare sempre più credibile la ricostruzione secondo la quale il Re lo avrebbe sostenuto nel suo tentativo e lo avrebbe incoraggiato lasciandogli credere che il governo sarebbe stato affidato al ben reputato generale Caviglia (mentre la decisione per Badoglio, che non piaceva a nessuno oltre al Re medesimo, era già stata presa da tanto tempo).

Elemento scatenante avrebbe potuto ben essere il generale rimpasto delle più alte cariche dello stato voluto da Mussolini nella prima parte del 1943. D'altro canto, il vorticoso giro di rapporti fra il monsignor Montini ed il Re (anche per il tramite della ingenua nuora Maria José), Galeazzo Ciano e gli americani, ha sempre lasciato libero ed ha reso non infondato il sospetto che il Vaticano abbia avuto un ruolo più vasto di quello dello spettatore terzo. Ciano, genero del Duce e cugino del Re (per averne ricevuto il Collare dell'Annunziata), buon amico di Montini, era con Bottai e Grandi il terzo e più inatteso promotore della mozione di sfiducia.

La riunione del Gran Consiglio, che non si teneva dal 1939, non fu ovviamente chiesta esplicitamente per deporre il Duce, bensì fu con pretesti addotta a ragioni di chiarimento e di punto della situazione, mentre proseguiva l'avanzata delle truppe alleate da Sud; pare a taluni studiosi assai inverosimile che il Duce, accorto conoscitore e della politica e dei suoi gerarchi, non sospettasse sin da subito l'argomento e non si rendesse conto che il Gran Consiglio aveva il potere di destituirlo, perciò è stata avanzata l'ipotesi, forse confortabile a posteriori dalla condotta dell'interessato durante la riunione, che Mussolini intendesse effettivamente rimettersi alle loro decisioni. Chiesta una prima volta il 13 luglio, Mussolini la concesse appunto per il 25. Grandi corse a Roma da Bologna il 20 ed ebbe quindi 5 giorni per organizzare la sua specialissima fronda. Ad ogni buon conto, forse anche per levarsi una soddisfazione, la mattina del 23 Grandi informò Mussolini del suo ordine del giorno e di cosa avrebbe detto. Il Duce, gli negò metà della soddisfazione, ascoltando senza batter ciglio.

Per la mozione del 25 luglio, Grandi, fu condannato a morte in contumacia al Processo di Verona, che si tenne in territorio della Repubblica Sociale Italiana. Era riuscito a scappare in Spagna, comunque, ad agosto, sei mesi prima del processo.

Fino agli anni sessanta visse in America Latina, specialmente in Brasile, donde rimpatriò per aprire una fattoria modello nella campagna di Modena.


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Dal diario di Grandi

Il mattino del 22 luglio, a casa di Bottai, incontravo Ciano il quale aveva domandato insistentemente di parteciare alla nostra azione. Feci presente a Ciano la sua posizione delicata di genero di Mussolini. Ciano rispose: "Perché non mi volete? Se mio padre fosse vivo sarebbe con voi". Egli avrebbe parlato in Gran Consiglio sul tradimento tedesco.
A questo punto si fece vivo in me il desiderio di conferire col duce prima della riunione del Gran Consiglio. Domandai di essere ricevuto. L'udienza fu fissata per le ore 17 del 22 luglio.
Nell'anticamera della sala del Mappamondo incontrai il maresciallo Kesserling per il quale il duce aveva riservato un colloquio di un'ora. Per me 15 minuti. Il mio colloquio col duce sarebbe durato invece un'ora e un quarto.
Mentre io parlavo, anticipando a Mussolini quello che avrei detto in Gran Consiglio, mi accorsi che aveva sotto gli occhi il testo del mio ordine del giorno, evidentemente trasmessogli dal segretario del partito. Nessuna ambiguità, nessun infingimento.
Il duce doveva sapere, primo fra tutti, le ragioni e lo scopo della nostra azione.
Ricordo le parole esatte che il duce, pacatamente, disse prima di congedarmi. "Hai finito?" mi domandò glacialmente. "Ho finito". "Ebbene sappi - replicò - alcune cose che dovrai ben fissarti in mente e sulle quali ti invito a meditare quando sarai uscito di qua: 1. La guerra è ben lungi dall'essere perduta; avvenimenti straordinari si verificheranno fra poco nel campo politico e militare, tali da capovolgere interamente le sorti della guerra. Germania e Russia si accorderanno, l'Inghilterra sarà distrutta. 2. Io non cedo i poteri a nessuno; il fascismo è forte, la nazione è con me, io sono il capo, mi hanno obbedito e mi obbediranno. 3. C'è, è vero, molto disfattismo in giro, fuori e dentro il regime, ma esso sarà curato a dovere come si merita, non appena io giudicherò che sarà venuto il momento. 4. Per tutto il resto, arrivederci dopo domani in Gran Consiglio.
Puoi andare". [...]

Palazzo Venezia, il cortile, lo scalone, l'anticamera della sala dove si riunisce il Gran Consiglio è presidiato [il che non è mai accaduto] da reparti della milizia fascista in pieno assetto di guerra.
Nel presentare e illustrare il mio ordine del giorno, dichiaro: "Non parlo per il duce, al quale ho comunicato 48 ore or sono il mio pensiero e le mie idee, ma bensì per voi camerati del Gran Consiglio".[...]

La drammatica riunione dura 10 ore.
Ciano si alza in piedi con una proposta assurda, quella di fondere insieme l'ordine del giorno Grandi con l'ordine del giorno Scorza, La proposta cade fortunamente nel vuoto. E' a questo punto che il duce, giudicando di avere in pugno la maggioranza dell'assemblea, decide di mettere ai voti il mio ordine del giorno.
La deliberazione da me proposta, quale surrogato di un voto parlamentare è approvata a grande maggioranza: 19 contro 5.
Con voce stupefatta il segretario del partito comunica all'assemblea i risultati della votazione.
Dopo un attimo di silenzio il duce si alza e si avvia a passo lento verso l'uscita. Ferma con un gesto del braccio il segretario del partito, mentre questi si accinge a dare il consueto saluto al duce. Sulla soglia della sala del Mappamondo il duce si volge verso l'assemblea e dice: "Il Gran Consiglio stasera ha aperto la crisi del regime".[...]

Prego il ministro della Real Casa di recapitare il documento immediatamente nelle mani del Sovrano. Insisto sulla necessità di decisioni immediate per prevenire l'inevitabile rappresaglia tedesca. Insisto sul nome del maresciallo Caviglia come eventuale successore di Mussolini, quale Primo Ministro e di Alberto Pirelli come ministro degli esteri.[...]

Il ministro della Real Casa osserva: "Perché Caviglia e non Badoglio? [Durante la prima guerra mondiale d'Acquarone era stato per molto tempo ufficiale dell'allora generale Badoglio e aveva mantenuto con lui dimistichezza di rapporti.] Gli rispondo spiegando gli ovvi motivi di questa mia convinzione. [...]

Alle ore 12 il ministro della Real Casa mi fa sapere che il Sovrano ha affidato poco prima al maresciallo Badoglio il compito di succedere a Mussolini nella carica di Primo Ministro.
Il Re riceverà a Villa Savoia, residenza privata del Sovrano, il duce alle ore 17.
Il duce non è più dittatore d'Italia.

(da Dino Grandi. "Il mio paese. Ricordi autobiografici" a cura di Renzo De Felice. Il Mulino, Bologna,1985)



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* "Nella vita di noi Italiani ci sono tanti Maggi radiosi e troppi Inverni lunghi"
* "La plebe Italiana è mutevole come il mare"
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